La Casa dei Crescenzi

di Giorgio Ortolani

 

L’edificio, situato all’angolo tra le attuali via Luigi Petroselli e via di Ponte Rotto, costituisce un esempio raro di casa aristocratica realizzata tra l’XI e il XII secolo. Il nome della via adiacente mantiene, almeno nella toponomastica, la perduta relazione con il passaggio sul Tevere attraverso il Ponte di S. Maria o Senatorio, poi Ponte Rotto, al centro di un’area allora densamente edificata. Gli adiacenti edifici per uffici comunali, progettati nel 1936 da Cesare Valle, con i prospetti in mattoni hanno cercato una certa assonanza, almeno cromatica, con le antiche preesistenze.

Inizialmente era stata prevista, come ricordava Gustavo Giovannoni, “una necessaria costruzione porticata, dalle semplicissime linee, che congiungerà la nostra casa con il nuovo palazzo degli Uffici, sì da toglierla da un inopportuno isolamento”. Dal 25 febbraio 1939, conclusi i lavori di restauro curati da G. Petrignani, la Casa dei Crescenzi accoglie il Centro di Studi per la Storia dell’Architettura, istituito “per la difesa di quel patrimonio artistico” allora considerato “una delle materie prime nell’autarchia nazionale”, ed erede dell’Associazione Artistica fra i Cultori d’Architettura, nata nel 1890. Se il riferimento all’autarchia appare quantomeno datato, il concetto di materia prima attribuito ai beni culturali appare in anticipo sui tempi.

 

La casa fu costruita da Nicola figlio di Crescenzio e Teodora, come proclamano le orgogliose iscrizioni, utilizzando mattoni e marmi sottratti da edifici antichi. Pur se è stato in passato messo in dubbio il legame con la famiglia del patrizio Crescenzio, che aveva osato ribellarsi all’imperatore Ottone III, o a quel “Nicholaus magister sacri palatii, oriundus de genere antiqui Trebatii” ricordato dal vescovo Benzone di Alba come capo dell’opposizione romana al papa Alessandro II nel 1062, vista la diffusione del nome in quell’epoca, indubbiamente si tratta di una residenza signorile di grande prestigio. Le iscrizioni, sul portale principale, realizzato con una sezione di architrave tratto da un’edicola a monòptero, e su quello laterale, interpretano pienamente lo spirito della rinascita di Roma antica che portò alla ufficiale restituzione del potere amministrativo del Senato romano nel 1143. I caratteri epigrafici riporterebbero però ad una data anteriore, “compresa fra il tardo XI secolo e la metà del XII, ma più vicina al 1100”.

 

Accanto ai temi moralistici del declino di ogni gloria terrena, le iscrizioni richiamano all’attenzione dei discendenti degli antichi Quirites l’orgogliosa ambizione del proprietario di rinnovare la grandezza di Roma, “roma veterem renovare decorem”, celebrando la propria famiglia “patrvm decvs ob renovare svorvm” con la realizzazione dalle fondamenta della “domvs svblimis … ab imis”. Al lato del portale di ingresso, la cui importanza è sottolineata anche dalle mensole a testa di leone alla base dell’architrave, la finestra accoglieva un busto del proprietario, nobilitato dall’antico lacunare in marmo posto come parapetto tra le due piccole semicolonne in mattoni. La sezione di antico architrave curvo soprastante, infatti, nell’iscrizione sulle due fasce ricorda lo scomparso ritratto dell’autore della costruzione, “…effigies qvis me perfecerit avctor”, ancora visto dal Gregorovius.

 

L’ambiziosa tipologia architettonica conferma ulteriormente l’orgoglio per la roma renascens, con una loggia a piccole arcate su mensole e marmi tardoantichi o rilavorati. Oltre alla ricchezza degli elementi di decorazione architettonica in marmo, con mensole simili a quelle della Basilica di Massenzio, questa loggia aggettante ricorda l’età tardoantica, come la reggia di Didone nelle miniature di Virgilio o la perduta loggetta del Mausoleo di Teoderico a Ravenna; o bizantina, come le case di Costantinopoli nel quartiere di Fanar. La loggia, in buona parte in rovina, lungo Via di Ponte Rotto poggia su sette colonne inalveolate, alternate a paraste, tutte in mattoni e con cornici a denti di sega, che fecero supporre un’improbabile derivazione dal prospetto del sepolcro del fornaio Eurisace presso Porta Maggiore, in realtà allora inglobato nelle torri esterne di Onorio, del 402-403 d.C. Eventuali confronti potrebbero essere riferiti a più tardi edifici funerari in opera testacea di età imperiale, come ad esempio il “Tempio del Dio Redicolo”, probabilmente della metà del II sec. d.C., nel complesso del Pagus Triopius di Erode Attico alla Valle della Caffarella.

 

In questi elementi architettonici si riconosce, piuttosto, l’originale volontà di realizzare un’architettura aulica, degna degli ordini architettonici antichi. Le cornici a denti di sega, che troveranno ampia diffusione nella decorazione dei campanili laziali, erano già diffuse negli edifici sacri di Ravenna del V e VI secolo, sono qui attentamente usate, offrendo una superficie chiaroscurale perfettamente armonizzata con quella degli intagli marmorei. L’abile uso del mattone riesce a rendere abilmente la plasticità dei capitelli sulle semicolonne, sintetizzando con eleganza gli elementi fondamentali di ima secunda folia ed abaco.

 

All’interno dell’edificio, la voluta magnificenza si riconosce soprattutto nella complessità della copertura, con doppia volta a crociera sui due livelli; in quello inferiore interrotta a metà dal muro verso l’ingresso. Nelle volte superiori, in gran parte crollate, i peducci e gli stessi archi d’imposta sono sottolineati da modiglioni in marmo, motivo consueto nelle decorazioni pittoriche medievali ma altrimenti non documentato nell’architettura reale. Le pareti dell’ambiente superiore sono appena curvate ad abside, suggerendo la spazialità di esedre laterali, centrate sulle originarie aperture sulla loggia e slegate dalle volte della copertura.

 

La costruzione è stata in genere definita casa-torre e, come tale, inserita anche nel progetto “Torri e complessi fortificati di Roma medioevale” promosso dal Ministero per i Beni Culturali nel 1986. Allo stato attuale, sembrerebbe poco probabile che una torre sormontasse l’edificio, vista anche la relativa snellezza delle pareti, soprattutto al livello superiore. L’antica denominazione di Casa di Pilato sembra derivata dalle sacre rappresentazioni medievali della Passione che si svolgevano al Velabro, mentre l’identificazione con la torre del Monzone, legata anche ad una scomparsa chiesa di San Lorenzo De Muczis presso il ponte di S. Maria, ma detta anche della Gensola, fa sorgere il dubbio che tale torre fosse collocata all’altro estremo del ponte. Oltretutto, in occasione dei tumulti scoppiati con la venuta a Roma di Arrigo VII nel 1312, si ha notizia della distruzione, più che il danneggiamento come è stato considerato, di questa Mauzonem turrim, caratterizzata da due porte sui lati opposti, “oppositis ad alterum latus valvis”, ad opera di “Iacobus de Stephanexis …uno momento sub plebe furore diripiens”.
La scarsità di confronti, non solo a Roma ma nella stessa Europa, di questa tipologia architettonica, non semplice casa-torre ma aulica residenza patrizia e, soprattutto, la ricercata qualità dell’edificio, pur se ancora acerba rispetto alla successiva affermazione delle arti e dell’architettura a Roma prima dell’esilio avignonese, ne fanno assolutamente un unicum nel pur ricchissimo patrimonio monumentale di Roma.

 


Le notizie storiche sono tratte principalmente dal fascicolo Il Centro di Studi per la Storia dell’Architettura, Roma 1940. La perduta iscrizione sulla distruzione della torre del Monzone è trascritta in: L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Milano 1723-1751, vol. X, p. 408